Il giorno in cui ho scoperto di avere l’età dei datteri
“Ah, signora mia, l’età”. Questa settimana stava andando tutto bene: telelavoro, figlia a scuola, marito che mi porta la colazione a letto e mi dice “Ti amo” senza un perché, amici genovesi che pubblicano libri gialli, vicini di casa milanesi che non salutano. Insomma, la normalità. Mi apprestavo a scrivere un post come gli altri, chessò: “Fauna al supermercato”, “Anomalie zodiacali”, “Dieci motivi per abolire il weekend”. E invece ieri sera è arrivata la telefonata di mio padre. Ma non la solita “Tutto bene, lì?”, la telefonata definitiva. Cioè lui ha preso il cellulare in mano, ha composto il numero e ha aperto così: «Giusy, mi hanno detto che hai 46 anni. Ma com’è possibile? Chiamami più spesso, perché adesso che anche tu sei “grannuzza”, non si sa mai». Ora, non so se vi rendete conto dello choc. Mio padre mi ha appena detto che ho una certa età.
Se tuo padre ti dice che sei vecchia, tu che fai?
Io non pensavo di aver raggiunto l’età dei datteri. Tra parentesi, riflettevo su: povera pianta del dattero che non fruttifica prima dei tre anni ma poi dura trecento anni come Matusalemme, in eterno condannata a quest’espressione ferale che indica l’inesorabile passare del tempo. Pensavo che i 46 anni fossero sì, più vicini ai 50 che ai 40, ma insomma, nella media. Mio padre, invece, è stato perentorio: «Ma davvero ne hai fatti 46? Io pensavo di meno». Io, che al telefono ridevo come una pazzah istericah (leggetelo à la Malgioglio), ho obiettato: «Scusa, papino, ma quanti pensavi che ne avessi compiuti?». E lui, fuori dai gangheri per lo sforzo di calcolo: «Ma sui 40! Non più di 41! Tua madre dice che vi levate solo 30 anni. E non è possibile! Com’è potuto succedere?».
Insomma, questa cosa della mia età non gli calava. E non riuscivo a calmarlo. Notate bene che mio padre di anni ne ha 81 e ogni tanto, quando è stanco o in dormiveglia, attribuisce il nome di suo fratello (mio zio) a mio fratello (suo figlio). Quindi io nella telefonata della sera tento sempre di rassicurarlo e mento costantemente: «Come stai?»/«Bene». «Al lavoro tutto ok?»/«Sì». «Sei felice?»/«Sempre». «Avete mangiato?»/«Sto preparando». «Hai bisogno di soldi?»/«No». Ma su questa cosa dell’età ho dovuto sfoderare l’artiglieria pesante. Snocciolando un elenco di sette bugie per provare a farlo ragionare che non tutto era perduto:
- Ma papà, i 46 sono i nuovi 26 (non ha funzionato, non capiva il linguaggio da riviste femminili)
- Ma papà, le donne oggi a 46 anni fanno carriera (non ha funzionato, non ci credevo manco io, che già devo ringraziare Iddio se non mi licenziano)
- Ma papà, la nonna ti ha partorito a 46 anni! (non ha funzionato, dovevo usare un altro esempio storico, magari quello dello Stupor Mundi, il parto in piazza di Costanza d’Altavilla, quando scodellò Federico II da ultra-quarantenne)
- Ma papà, ho 46 anni, ma me li porto bene (non ha funzionato, perché l’ultima volta che mi ha visto mi guardava al centro della fronte, dove ho la ricrescita)
- Ma papà, ho 46 anni perché Corinna ne ha già 11 (non ha funzionato, anzi ha aggravato la situazione: «Ma chi, tua figlia? Tra un po’ ti dice che è fidanzata!»)
- Ma papà, ho 46 anni, ma non ho nessun acciacco dell’età (non ha funzionato, perché tutti sanno cosa vuol dire riordinare il mio armadietto dei farmaci)
- Ma papà, ho 46, ma non ho ancora alcun segnale della menopausa (non ha funzionato, perché ho certi sbalzi d’umore che manco Bette Davis in “Ombre malesi”, di cui agevolo tosto una diapositiva:
Non c’è stato nulla da fare, il mio papino era scosso, sconvolto, incredulo, sbalordito, triste. E continuava a ripetermi, sconfortato: «Giusy, sentiamoci più spesso, non si sa mai».
Fatto sta che, per la prima volta nella mia vita, mi sono sentita vecchia. Il mio papà è il mio eroe, per me lui è sempre quello che mi tiene in braccio, come nella nostra prima foto insieme. Mondello, 1975, con mia nonna che stende i panni sullo sfondo, in giardino. Lui bellissimo, con tutti i capelli neri. Io già a dieta, a tre mesi, con il vestitino fatto all’uncinetto dalla Zia Maria.
E non importa che adesso sono così pesante che lui, che si regge poco in piedi dopo che si è rotto il femore, non possa sollevarmi più. Com’è che, improvvisamente, devo rassicurare lui io e non lui me?
Comunque, parliamone: ma a 46 anni quante cose ancora potrò fare? Senza indugiare sui pipponi sociologici, me lo chiedo (e ve lo chiedo) davvero.
Posso ancora cambiare mestiere, città, casa, interessi, passioni, look?
A volte credo che la prima a imporsi limiti e paletti sia io, che ultimamente mi accontento un po’ troppo e non mi incavolo più se, quando faccio un nuovo progetto, chi mi sta attorno me lo cassa sul nascere. E forse è questo l’avvertimento inconsapevole che mio padre voleva farmi nella nostra telefonata strampalata: «Non smettere mai di fare i capricci come quando da piccolissima avevi fame. E io ti dovevo “annacare” (in siciliano: cullare)». Sì, forse mi voleva dire questo.
Comments
È sempre un piacere leggerti! E comunque “grannuzza” è una parola bellissima
Eravamo grannuzze before granny was cool <3
Digli solo che smetterai mai di essere la sua “picciridda” ❤
TVB
Un racconto tenerissimo che mostra l’amore che vi lega. Se il tempo che passa ci insegna qualcosa, credo che sia di non incendiare il mondo per ogni cosa storta. Però ogni tanto un capriccio ci vuole!
Raccontami il tuo ultimo capriccio